Le lettere

I.

In una prospettiva storico-critica che cerchi di intendere e di far valere concretamente nel sorgere della poesia tutte le forze della personalità creativa (e senza dunque il disprezzo puristico dei nessi fra vita ed arte) acquistano grande valore le lettere michelangiolesche cui si usa, a volte, accennare con frettolose parole e quasi per dovere di completezza descrittiva, quando non si abbandonano subito, delusi, come di fronte a documenti pratici privi di ogni vero interesse e rafforzanti l’impressione di un artista tutto chiuso nel segreto della sua arte e magari rivelante una umanità gretta e impoetica: il borghese della vita pratica che sarebbe altra cosa dall’eroe dell’arte.

Impressione profondamente sbagliata (come è quella, del resto piuttosto superata, del contrasto fra un «titano» e un uomo debole, chiuso e magari vile, che è cosa assai diversa dalla realtà drammatica e alta della situazione storico-personale di Michelangelo), come è sbagliata la trattazione frettolosa, e quasi per dovere d’ufficio, delle lettere a cui non sempre i critici hanno concretamente reagito con l’energia dovuta, o hanno reagito invece meglio con lo scatto estremistico del Momigliano che finiva per contrapporre troppo decisamente lettere a rime[1], ma che, pur con questo scatto intransigente e tutt’altro che accettabile, portava certo un nuovo e autorevolissimo stimolo all’attenzione verso le lettere come espressione della grande personalità michelangiolesca.

Non si tratta in realtà di contrapporre lettere a rime (anche se le prime hanno una loro forza immediatamente e facilmente piú convincente), ma di considerare le prime sia come mezzo di miglior comprensione del fondo spirituale e di esperienza da cui nascono le stesse rime (incoraggiando cosí a quell’approfondimento del mondo interiore di Michelangelo che è sempre essenziale a capire le rime senza con ciò degradarne la lettura su un puro piano biografico e psicologico), sia come riserva di realismo a cui agganciare la linea realistica di molte rime, sia come fatto scrittorio, che, se non ha l’impegno artistico delle rime, è sempre certamente su di un piano intenso ed alto di espressione, ben al di sopra del puro piano veramente pratico di quei «ricordi» che erano come un taccuino di «cose da ricordare» (spese, ricevute, ecc.)[2].

Non ingannino certe dichiarazioni di Michelangelo come quella della lettera a Domenico Buoninsegni[3], che scusa con la fretta qualche possibile costruzione imperfetta del periodo: «Quand’io vi scrivo, se io non scrivessi cosí rectamente chome si chonviene o se io non ritrovassi qualche volta el verbo principale, abiatemi per iscusato, perché i’ ò apichato un sonaglio agli orechi che non mi lascia pensar cosa ch’io voglia». Perché la stessa fretta invocata (e cosí efficacemente risolta nella immagine incalzante e viva del sonaglio appiccato agli orecchi) stimola molto spesso in realtà una velocità e fertilità intensa di immagini, di movimenti sintattici, spregiudicati ed efficacissimi, una violenza concentrata di espressioni pregnanti, che è fra gli aspetti piú rilevanti di una capacità espressiva sempre desta e alacre, e una tensione all’essenziale che è certo assai diversa dalla sommarietà goffa di un uomo davvero letterariamente incolto e inesperto.

Tensione di scrittore che mira a tradurre sulla pagina (e, vedremo poi, con diversità percepibili nel trascorrere degli anni e delle vicende interne) volontà, decisione, affetti, con forte impegno comunicativo ed impressivo-espressivo abolendo ogni lungaggine ed ogni amplificazione oziosa.

E il linguaggio, la sintassi, il ritmo si costituiscono efficaci e validi sotto la pressione interna dello scrittore che esprime rapidamente ed energicamente una situazione, un moto dell’animo, una decisione e, attraverso questi, tutto il moto impaziente di una forte vita intima sorretta da maturata moralità e cultura, ricca di istinto ma non rozza. Riprova anzi della vocazione espressiva michelangiolesca che si esercita in ogni occasione, anche quando l’argomento trattato può apparire di per sé insignificante e banale.

Anche nelle lettere che parlano di denaro, di impiego vantaggioso di questo, di poderi e case da acquistare, una espressività personale sintetica e aggressiva segna di sé potentemente la pagina e rivela energicamente motivi interni della situazione sentimentale michelangiolesca.

Sí che (specie nelle lettere relativamente piú giovanili o precedenti comunque l’ultimo periodo romano) le notizie essenziali[4], gli irruenti avvertimenti e ordini, gli sfoghi appassionati e dolenti ben traducono, nel loro moto pieno ed intenso, il ritmo faticato e strenuo di una vita d’uomo e di artista eroicamente impegnato in immani imprese, e insieme nell’accumulo di una difficile fortuna economica, inteso a rialzare le sorti sociali della famiglia in Firenze, e costretto a lottare contro l’inerzia e l’inavvedutezza del padre e dei fratelli, contro la loro incomprensione. E questa incomprensione lo irrita e lo stimola tanto piú a seguire la dura legge economica e sociale in uno sforzo pratico che si colora chiaramente di una componente di nobiltà spirituale, quasi puritana, di lotta eroica contro le avversità, la fortuna, avvertite nel loro peso e nel loro corrispettivo di delusione. Come la volontà di accumulo di ricchezza per il nome della famiglia decaduta si lega ai miti ideali del «cittadino» fiorentino[5] che cosí in parte reagisce alla stessa condizione dell’artista protetto ma tutt’altro che lieto di tale condizione: si ricordino in proposito l’amarissima frase tarda riferita dal Vasari[6] («coloro che cominciano à essere asini de principi à buonora se gli prepara la soma per sino doppo la morte») e quanto Michelangelo dice in una lettera senile a Leonardo: «... ché io non fu’ mai pictore né scultore come chi ne fa boctega. Sempre me ne son guardato per l’onore di mie padre e de’ mia frategli, ben io abbi servito tre papi, che è stato forza»[7].

E come gli stessi motivi «pratici» son dunque intimamente complessi e vivi di componenti non puramente esterne e grette, cosí la loro traduzione energica nelle lettere tanto meglio rivela un fondo personale e drammatico attraverso la sintassi densa e antiornamentale, attraverso il ritmo rapido e concentrato, attraverso il linguaggio parlato-scritto, realistico e popolaresco con un di piú di vigore e di impressività-espressività.

Tutta la persona vi confluisce con la sua passionalità, il suo risentimento, la sua sofferenza, la sua tensione che si eccita nell’attrito con la realtà ostile e si esalta nella coscienza del proprio sforzo eroico, della propria distinzione dalla facilità, dall’inerzia, dalla banalità e mediocrità.

Se le cose che vengono dette possono apparire, per il loro «argomento», mediocri, l’impegno intimo e l’impegno espressivo non son mai mediocri e la lettura dell’intero epistolario risulta davvero essenziale mezzo di conoscenza della personalità michelangiolesca, in forma concreta e diretta attraverso il tono e il timbro della scrittura.

Come dicevo, specie nelle lettere degli anni precedenti l’ultimo lunghissimo periodo romano, piú forte si avverte l’aggressività espressiva di Michelangelo (e dietro di essa l’eroica lotta economica-artistica, la lotta per l’affermazione artistica e sociale contro le ostilità di uomini e tempi).

Si rileggano cosí le lettere in cui Michelangelo dà voce alla esaltata pena delle sue immense disumane fatiche di artista, come quella al fratello Buonarroto, del 10 novembre 1507: «Sappi che io desidero molto piú che non fate voi di tornare presto, perché sto qua chon grandissimo disagio e chon fatiche istreme e non actendo a altro che a lavorare el dí e la notte, e ò durata tanta faticha e duro, che se io n’avessi a rifarne un’altra, non chrederrei che la vita mi bastassi, perché è stata una grandissima opera, e se la fussi stata alle mani d’un altro, ci sarebe chapitato male dentro...»[8].

E ancora (il 17 novembre 1509, al fratello Buonarroto[9]): «Io sto qua in grande afanno e chon grandissima faticha di chorpo, e non ò amici di nessuna sorte, e no’ ne voglio: e non ò tanto tempo che io possa mangiare el bisonio mio. Però non mi sia data piú noia, che io no’ ne potrei soportare piú un’oncia».

Tutto è ridotto all’essenziale (fatica, solitudine, sdegno per cose che lo distraggono dal suo impegno di lavoro); e l’espressione parlata e popolaresca suggella con il suo vigore elementare ed estremo questa tensione di comunicazione impressiva-espressiva.

Come avviene tante volte al termine di un periodo di cui l’espressione piú violenta e nuda costituisce la punta gagliarda e appassionata: ad esempio, nella lettera del 19 agosto 1497 al padre, in cui, delineato rapidamente il quadro della sua situazione irta di difficoltà, conclude, preso dall’appassionato sentimento del suo dovere verso il padre e della sua volontà di aiutarlo ad ogni costo: «Pure, quello mi chiederete, io ve lo manderò, s’io dovessi vendermi per istiavo»[10].

Né la violenza concentrata in pochi periodi e in periodi tumultuosi e densi si può dire che porti la prosa delle lettere a mancare di un suo speciale ordine interno, di una sua serrata coerenza e chiarezza energica di discorso che può profilarsi in sequenze sintattiche «irregolari», anacolutiche, ma non veramente aggrovigliate e confuse, sí che va ribadito che quella prosa nasce da un animo risentito e incurante di armoniche disposizioni costruttive, ma non certo da una mancanza di capacità espressiva, volta com’è ad un rilievo per punte e segni estremi, ma non disordinati ed incerti.

Anzi sembra che lo scrittore (che è, d’altra parte, culturalmente fuori di una vera educazione di tipo ciceroniano) voglia questo tipo di articolazione violenta, tratti il materiale linguistico con una specie di padronanza risoluta, piegandolo violentemente a membrature e rilievi possenti, spogliandolo di ogni attrazione al facile e allo scorrevole, ma non certo senza una interna concatenazione conseguente ed esauriente.

«Ò inteso (scrive al padre[11]) per l’ultima vostra chome el piato va; dami passione assai, perché conosco che chon questi notai bisognia perdere a ogni modo e essere agirato, perché e’ sono tucti ladri... Io vi chonforto, non possendo avere ragionevole achordo, che voi vi difendiate quanto potete, e sopratucto quello che voi fate, fatelo sanza passione, perché e’ non è sí gran faccenda, che, faccendola sanza passione, non paia pichola. In questo caso non bisogna guardare alla spesa; e quando e’ non ci fia da spendere, Idio ci aiuterà»[12].

Dove spuntano (e le lettere sono gremite, per chi le sappia leggere, di simili motivi che fanno intendere la ricchezza di toni della personalità michelangiolesca nel suo impianto di tensione violenta, di serietà profonda, di inesausta e complessa spinta morale[13]) importanti motivi di consapevolezza realistica nati da un’esperienza dura della vita associata, di riferimenti ad una fede che violentemente ridimensiona la limitatezza delle faccende pratiche. Nelle quali però Michelangelo si impegna senza riserve come in una lotta drammatica contro la resistenza ostile delle cose, contro la caparbietà irragionevole degli uomini, con un rovello che, mescolato al profondo motivo della passione filiale per il padre vecchio e debole e «reverendo» (uno dei punti piú alti nella gradazione di sentimenti di Michelangelo uomo), darà luogo ad una delle sue lettere piú intere e formidabili, tesa da una violenza di sdegno biblico e aperta in una dolente ed esaltata ricontemplazione attiva della propria vita faticosa e difficile: quella lettera dell’estate 1509[14] al fratello Giovan Simone, scapestrato e disobbediente, scialacquatore e insensibile all’opera di ricostruzione del prestigio economico-sociale della famiglia in Firenze, che può considerarsi uno dei capolavori dell’epistolario michelangiolesco, una delle prove piú probanti dello scrittore su questo piano espressivo piú immediato e pur tutt’altro che rozzo e impacciato:

Giovan Simone, e’ si dice che chi fa bene al buono, il fa diventare migliore, e al tristo, diventa peggiore. Io ò provato già piú anni sono, con buone parole e chon facti, di ridurti al viver bene e im pace con tuo padre e con noi altri, e·ctu peggiori tuctavia. Io non ti dico che tu sia tristo, ma tu·sse’ i’ modo che tu non mi piaci piú, né a me né agli altri. Io ti potrei fare un lungo dischorso intorno a’ chasi tua, ma·lle sarebon parole come l’altre che t’ò già facte; io, per abreviare, ti so dire per chosa cierta che tu non ài nulla al mondo, e·lle spese e·lla tornata di casa ti do io e òcti dato da qualche tempo in qua per l’amor de Dio, credendo che tu fussi mio fratello chome gli altri. Ora io son cierto che tu non se’ mio fratello, perché se·ctu fussi, tu non minacceresti mio padre; anzi se’ una bestia, e io come bestia ti tracterò. Sappi che chi vede minacciare o dare al padre suo, è·ctenuto a mectervi la vita; e basta.

Io ti dicho che tu non ài nulla al mondo; e chom’io sento piú u’ minimo che de’ casi tua, io verrò per le poste insino costà e mosterroti l’error tuo e insegnierocti stratiar la roba tua e fichar fuocho nelle case e ne’ poderi che tu [non] à’ guadagniati tu. Tu non se’ dove tu credi; se io vengo costà, io ti mosterrò cosa che tu ne piangierai a chald’ochi e chonoscierai in su quel che tu fondi la tua superbia.

Io t’ò a dir questo anchor di nuovo, che se·ctu voi actendere a far bene e a onorare e·rriverir tuo padre, che io t’aiuterò chome gli altri, e farovi infra pocho tempo fare una buona boctega; quando tu non facci chosí, io sarò chostà e achoncierò i chasi tua i’ modo che tu chonoscierai ciò che tu se’ meglio che tu chonosciessi mai, e·ssaperai ciò che tu ài al mondo, e vedra’lo in ongni luogo dove tu anderai. Non altro. Dov’io mancho di parole, superirò cho’ facti.

Michelagniolo in Roma.

Io non posso fare che io non ti schriva ancora dua versi: e questo è che io son ito da dodici anni in qua tapinando per tucta Italia, sopportato ogni vergognia, patito ogni stento, lacerato il corpo mio in ongni faticha, messa la vita propia a mille pericoli solo per aiutar la chasa mia; e ora che io ò cominciato a·rrilevarla un poco, tu solo voglia esser quello che schompigli e·rrovini in una ora quel che i’ ò facto in tanti anni e chon tanta faticha, al chorpo di Cristo, che non sarà vero! ché io sono per ischompigliare diecimila tua pari, quando e’ bisognierà. Or sia sa[vio], e non tentare chi à altra passione.

Tutto qui trova una singolare misura nella tensione e «terribilità» incalzante: l’urgenza del voler dire senza inutili lungaggini, la perentorietà degli ammonimenti scanditi dalle pause conclusive («io, per abreviare»... «e basta»... «non altro»...) che non bastano a contenere l’onda dello sdegno che vuole esprimersi fino in fondo, l’uso intenso di una sanzione generale attribuita a un detto e all’immagine piú parlata («e’ si dice che chi fa bene...», «chi vede minacciare...», «fichar fuoco nelle case...», «ne piangierai a chald’occhi...») e poi, alla fine (con quella potente ripresa post-scriptum in cui sgorga dal violento attrito precedente la passione piú intera e personale), quella bellissima, ardente e amara ricapitolazione della propria vita, saldata dalla imprecazione e dalla esaltata prefigurazione di una lotta con «diecimila tua pari», prima della chiusa contenuta e minacciosa.

Grande pagina come altre grandi pagine è pur dato ritrovare seguendo lo sgorgo di potenti moti e motivi dell’animo e dell’esperienza michelangiolesca. Fra questi, molto alto ed espresso in bellissime lettere, il motivo dell’affetto per il padre (già apparso nelle forme «terribili» della lettera a Giovan Simone) fra dovere di sangue, adesione ad una indiscussa legge naturale[15] e bisogno di impiego totale del proprio mondo affettivo, fra toni di virile tenerezza protettiva per quel vecchio debole e indifeso, impazienze scontrose che si placano fremendo, fino a profondi moti di umiliazione della propria superiorità, di riconoscimento della propria qualità di peccatore bisognoso di perdono in un rapporto di tipo biblico e patriarcale carico di tutti i complessi e traumi drammatici di questo grande personaggio tragico.

Si rileggano cosí la lettera dell’8 febbraio 1507 («Io ò charo che vo’ mi riprendiate perché io merito d’essere ripreso chome tristo e pechatore quante gli altri e forse piú»[16]) o quella al fratello Buonarroto, del 23 novembre 1516[17], cosí piena di trepidazione e di assoluto abbandono affettuoso per la temuta morte del padre, o quella, ancora piú in alto, del 1521[18] al padre, in cui lo sdegno perché la sua devozione non è stata compresa da quello si svolge, con la stessa intensità, in una tenerissima e pietosa invocazione di perdono, culminante nel richiamo finale alla sua qualità di figlio:

Charissimo padre, io mi maravigliai molto de’ chasi vostri, l’altro dí, quand’io non vi trovai in chasa, e adesso, sentendo che voi vi dolete di me e dite che io v’ò chaccíato via, mi maraviglio piú assai, perché io so certo che mai, dal dí che io naqui per insino adesso, fu nell’animo mio di far chosa, né pichola né grande, che fussi chontra di voi, e sempre, tucte le fatiche che io ò soportate, l’ò soportate per vostro amore, e poi che io sono tornato da·rRoma in Firenze, sapete che io l’ò sempre presa per voi, e sapete che io v’ò rafermo ciò che io ò; e non è però molti dí, quande voi avevi male, che io vi dissi e promessi di non vi manchar mai chon tucte le mia forze, i’ mentre che io vivo, e chosí vi rafermo. Ora, mi maraviglio che voi abiate sí presto dimentichato ogni cosa. Voi m’avete pure sperimentato già trenta anni, voi e’ vostri figl[i]uoli e sapete che io ò·ssempre pensato e factovi, quand’io ò potucto, del bene. Chome andate voi dicendo che io v’ò chacciato via? Non vedete voi fama che voi mi date, che e’ si dicha che io v’ò chacciato via? Non mi mancha altro, oltra gli afanni che io ò dell’altre cose! e·ctucti gli ò per vostro amore. Voi me ne rendete buon merito! Ora, sia la chosa chome si vuole, io voglio darmi ad intendere d’avervi chacciato e d’avervi facto sempre vergognia e danno; e chosí, chome se io l’avessi facto, io vi chieggo perdonanza. Fate chonto di perdonare a un vostro figl[i]uolo che sia sempre vissuto male e che v’abi facti tucti e’ mali che si possono fare in questo mondo. E chosí, di nuovo vi prego che voi mi perdoniate, chome a un tristo che io sono, e non vogliate darmi chostassú questa fama che io v’abbi chacciato via, perché la m’importa piú che voi non credete. Io son pur vostro figl[i]uolo!

O si segua, dentro la dialettica dei sentimenti e dei temi presenti nelle lettere, quel pauroso e drammatico sentimento dei «tempi» ostili, fino all’opprimente incubo di una incombente catastrofe apocalittica e di immani flagelli (come di chi consulti trepidante e crucciato un cielo minaccioso ed intenso, solcato da segni premonitori) e al disperato affidarsi all’ordine di una divinità piú imperscrutabile che pietosa, la quale si abbatte su giusti ed ingiusti e provoca quel ricorrente bisogno di fuga «disordinata» di fronte a cose troppo potenti e superiori alle possibilità degli uomini.

Bisogno di fuga che ha fatto a volte parlare di debolezza e viltà del dubbio «titano», ma che andrebbe soprattutto considerata alla luce di una educazione alla profezia savonaroliana mescolata con un certo colorito magico e superstizioso, e alla luce di una visione del mondo tragica e in crisi in cui i valori dell’homo faber non sono piú sufficienti, e alla prospettiva rinascimentale piú armonica (o umanisticamente stoica) succede un senso profondo di insicurezza, un senso della infinita erroneità umana, una impossibilità di razionalizzare il reale (e si pensi al nuovo senso della «fortuna» in un Grazzini, o del nulla amaro della vita in un Doni) in cui fortemente influiscono le vicende storiche con l’incalzare di guerre e rovine che Michelangelo avverte savonarolianamente come punizione di Dio e preambolo di catastrofi piú sconvolgenti e definitive. Sicché all’individuo non resta che la fuga e un drammatico «si salvi chi può» di fronte a vicende irresistibili.

Questo motivo della fuga e del tentativo privato di salvezza ricorre in varie lettere ai familiari in relazione alla vicenda del sacco di Prato, intrecciandosi (non lo si dimentichi) con un severo appello al divino e all’unico bene non minacciato. «Siate e’ pr[i]mi a fugire»[19] è l’ordine perentorio dell’artista ai familiari che d’altra parte ammonisce ad «attendere all’anima»[20], a non farsi amici e familiari di nessuno se non di Dio[21], a viver bene con Cristo e «poveramente», come lui fa e vorrà sempre fare (e qui la lettera si amplia in un nuovo ritratto morale-religioso della propria vita faticosa, piena di sospetti, angosciata e povera, perché consapevole di un’assoluta erroneità umana cui è indispensabile il perdono di Dio[22]). E mentre questo motivo religioso e di tono biblico ritorna in una lettera molto importante a Buonarroto (8 settembre 1515[23]) – tutta da sottolineare per la cupa, severa espressione di un’angoscia storica e di una scura sicurezza in avvertimenti profetici apocalittici scioccamente irrisi dall’incredulità dei familiari –, esso trova alta traduzione poetica nella celebre lettera da Venezia al Della Palla sulla propria fuga da Firenze nel 1529[24], poco prima della caduta della città:

Batis[t]a amico karissimo, io parti’ di costà, chom’io credo che voi sappiate, per andare in Francia, e g[i]unto a Vinegia mi sono informato della via, e èmmi decto che, andando di qua, s’à a passare per terra tedesca, e che gli è pericoloso e dificile andare. Però ò pensato d’intendere da voi, quando vi piaccia, se·ssiate piú in fantasia d’andare, e pregarvi, e cosí vi prego, me ne diate aviso, e dove voi volete che io v’aspecti: e anderemo di compagnia.

Io parti’ senza far mocto a nessuno degli amici mia, e molto disordinatamente; e benché io, come sapete, volessi a ogni modo andare in Francia, e che piú volte avessi chiesto licentia, e non avuta, non era però che io non fussi resoluto senza paura nessuna di vedere prima el fine della guerra. Ma martedí mactina, a dí ventuno di sectembre, venn’uno fuora della porta a San Nicholò, dov’io ero a’ bastioni, e nell’orechio mi disse che e’ non era da star piú, a voler campar la vita; e venne meco a chasa e quivi desinò, e chondussemi chavalcature, e non mi lasciò mai che e’ mi cavò di Firenze, mostrandomi che ciò fussi el mio bene. O Dio o ’l diavolo, quello che si sia stato io non lo so.

Pregovi mi rispondiate al di sopra della lectera, e piú presto potete, perché mi consumo d’andare. E se non siate piú in fantasia d’andare, ancora vi prego me n’avisiate, acciò pigli partito d’andare el meglio potrò da·mme.

Vostro Michelagnio[lo] Buonarroti.

La lettera si apre su di un motivo preciso: la richiesta all’amico di raggiungerlo e di andare con lui in Francia. E già in questa prima parte vibra l’ansia febbrile dell’uomo perseguitato e ossessionato da un comando superiore e in quel momento invincibile. Poi segue la narrazione (e la giustificazione singolare) della sua improvvisa e disordinata fuga da Firenze: e qui ogni particolare diventa essenziale per ciò che dice della situazione dell’animo e per la forza dello scrittore che, senza commento, realizza sulla pagina il succedere alla risoluzione virile («senza paura») del fatto misterioso e miracoloso che ha costretto alla fuga chi era disposto ad essere senza paura di fronte agli uomini, ma non di fronte a oscuri, tremendi flagelli di origine superiore[25].

La precisione delle date e dei luoghi rinforza la narrazione reale-misteriosa; e cosí fa, nel periodare paratattico incalzante come voce e ordine di vicenda necessaria, irrazionale, non suscettibile di ragionamento e di ipotassi, il carattere anonimo e misterioso di quell’«uno», messaggero di piú alto ordine, che gli parla all’orecchio, lo segue a casa, gli porta i cavalli, e non lo lascia mai piú finché l’ha condotto fuori della città.

Poi l’esitazione (non senza punte di rimorso) sul carattere divino o diabolico di quel messaggio, la cui ineluttabilità è comunque fuori discussione, sicché nella fine della lettera è ripreso l’impaziente bisogno di «andare», di allontanarsi disperatamente il piú possibile da luoghi destinati allo sfogo di collere e di flagelli che gli uomini non possono contrastare.

Questi motivi che siamo venuti enucleando dalle lettere, indicandone insieme la forza di traduzione espressiva, si alzano entro un piú generale contesto mai banale e puramente pratico, in un linguaggio denso ed energico, incisivo, impressivo-espressivo, che si avvale coerentemente di detti e motti ed espressioni parlate e popolari, che assecondano i moti violenti, gli sdegni, i giudizi risoluti, i sarcasmi[26], la malinconia[27], le impazienze dello scrittore.

Detti e modi ed epiteti popolareggianti e parlati di cui si potrebbe fare un’ampia raccolta: «choteste cichale», «merda secha», «duolmi ti sia portato... sí pidochiosamente», «chostoro mi dondolano», «serve puttane e porche», «non vi lasciate levare a chavallo», «mal fagnione», «col calzar del piombo», «l’amore del tarlo», «schalzo e gnudo», «guardatevi da·llui chome dal fuocho», «l’unguento» di «Pier Fantini»; o le battute appoggiate a detti popolari come «io, per non combactere con chi dà le mosse a’ venti, mi son tirato a dietro, perché, sendo uomo leggieri, non vorrei esser traportato in qualche machia», o «chome nelle cipolle, per mutar cibo, fa cholui ch’è infastidito da’ chaponi». Forme che si possono ricavare da tutto l’epistolario, ma che piú spesseggiano nella parte piú giovanile e matura che in quella senile.

II.

Le lettere riflettono infatti anche le forme di svolgimento della esperienza personale e storica di Michelangelo e, senza volere operare fratture brusche e troppo assolute, mi pare che nel lunghissimo ultimo periodo, successivo alle vicende dell’assedio fiorentino cosí importante nella vita dell’artista (scacco, delusione, rimorso forse, ripiegamento delle aspirazioni etico-politiche in una zona intima gelosa e difesa dalla prudenza[28], ma non loro effettivo abbandono ed anzi in qualche modo compressa loro accentuazione in un tono piú risentito di frustrazione pratica e di ideale rivincita[29]), le lettere assumono un tono meno apertamente aggressivo (gli sdegni e la violenza piú «parlata» si confinano semmai nel filone delle lettere a Leonardo, che seguitano ad esprimere i temi dell’economicità familiare, dell’ingratitudine dei propri parenti, del sospetto di poco amore o di amore interessato – «l’amore del tarlo» – del nepote), e si arricchiscono del colore severo di una saggezza «antica» ed esperta, sentenziosa[30], avversa alle pompe e alla vita di corte – che fa le donne «puttane» –, e completano il quadro di un ideale di vita a suo modo puritano circa il valore del denaro sudato e dell’onore delle famiglie «cittadine» (accresciuto da qualche elemento di compiacimento di un’alta origine aristocratica di tipo piú controriformistico e manieristico). Prevalgono toni e ritmi ora piú calcolati e dignificati da procedimenti simili (ma piú sobri) a quelli delle rime contemporanee (le lettere al Cavalieri, alla Colonna, al re di Francia[31]), ora piú malinconici e fra tetri e pacati-frementi, legati al senso della vecchiaia crescente e della sua esperienza insostituibile («Io son vechio, et la morte m’ha tolti i pensieri della giovanezza; et chi non sa che cosa è la vecch[i]ezza, habbia tanta pazienza che v’arrivi, ché prima nol può sapere»[32]), al valore personale dell’esperienza artistica («arte per allungare la vita»[33]), al desiderio di una pace che par trovarsi solo nei boschi, lontano dalla vita associata[34], all’intreccio fra coscienza della peccaminosità della condizione umana e il valore supremo della grazia e della fede (i grandi temi di una formazione savonaroliana precisati storicamente dai contatti con la Colonna e con il suo circolo di riforma cattolica), con l’inerente scarto delle opere di beneficenza attraverso i preti[35], con la prevalenza data alla contrizione individuale sulle pratiche religiose[36], al valore piú delle orazioni che delle medicine[37], alle elemosine segrete[38], alla missione dell’artista cristiano[39] che fa coincidere preoccupazioni estetiche con preoccupazioni morali[40].

E soprattutto, piú in alto, si legano alla presenza crescente, nella sua lunghissima vecchiaia, del pensiero assiduo della morte, la cui voce profonda di liberazione e di conferma della caducità umana risuona in molte lettere come Leitmotiv alto ed ossessivo fino a riempire di sé la grande lettera per la morte del fedele Urbino, specie di lirica in prosa che ancora una volta prova le grandi qualità dello scrittore delle lettere, a parte il fatto che in essa ritorna la ripresa di un verso delle terzine per la morte del padre e può indicare interni rapporti fra lettere e rime:

Messer Giorgio mio caro, io posso male scrivere, ma pur, per risposta della vostra, dirò qualche cosa. Voi sapete come Urbino è morto, di che m’è stato grandissima gratia di Dio, ma con grave mie danno e infinito dolore. La gratia è stata che dove in vita mi teneva vivo, morendo m’à insegniato morire non con dispiacere, ma con disidero della mo[r]te. Io l’ò tenuto venti sei anni, e òllo trovato reallissimo e fedele; e ora che io l’avevo facto richo e che io l’aspectavo bastone e riposo della mia vechiezza, m’è sparito: né m’è rimasto altra speranza che rivederlo im paradiso. E di questo n’à mostro segnio Idio per la felicissima morte che gli à facto: e piú assai che ’l morire gli è incresciuto e’ lasci[a]rmi vivo in questo mondo traditore, con tanti affanni: benché la maggior parte di me n’è ita seco, né mi rimane altro c[h]’una infinita miseria.

A voi mi rachomando e pregovi, se non v’è noia, che facciate mie scusa con messer Benvenuto del non rispondere alla sua, perché m’abonda tanta passione in simil pensieri, ch’io non posso scrivere; e rachomandatemi a·llui, e io a vo’ mi rachomando.[41]

«Mondo traditore» e Urbino «reallissimo e fedele», «infinita miseria» e «disidero della morte» e «speranza di rivederlo im paradiso» e «tanta passione»: espressioni alte e dolenti di un animo grande, tragico e tormentato da contrasti essenziali tradotti anche nella necessità (qui tanto piú necessità che compiacimento) di certe antitesi («gratia» e «infinito dolore», «in vita mi teneva vivo» e «morendo m’à insegniato morire») che richiamano pure modi essenziali delle rime e della matura espressività michelangiolesca, ma con un tanto piú aperto valore funzionale rispetto a ciò che sollecitano e da cui sono sollecitati, senza giungere a quell’«eccesso» di una poetica del difficile e del raro e del complicato che comparirà a volte nelle zone centrali delle rime.

E quindi ancora un rimando, nella vicinanza cronologica, alle ultime rime che hanno pure un riassorbimento piú intenso di certi procedimenti ingegnosi e concettistici[42]. Mentre dall’insieme delle lettere il passaggio alle rime è in relazione ad un piano di impegno tecnico-stilistico piú deciso e cosciente e il raccordo sarà da ritrovare insieme nella comune necessità piú interna e nel rifiuto di una facilità e comunalità di espressione ritrovata nelle lettere con la concisione urgente e il vigore parlato e popolaresco (e con un realismo che in gran parte spiega poi, prima di componenti di gusto e di tradizione, il fondo realistico del linguaggio delle stesse rime) e attinta nelle rime attraverso lo svolgimento vario di una tensione piú ardua e ambiziosa, nonché in una maggiore utilizzazione di tradizione letteraria, ma «necessaria» e non certo scolastica ed esercitatoria sui margini oziosi e dilettantistici di attività impegnative e insomma né un semplice diario senza forza poetica né un «hobby» inesperto o viceversa prezioso e snobistico.


1 Cfr. A. Momigliano, Storia della letteratura italiana, 8a ed., Milano-Messina 1959, p. 231. E anche piú chiaramente nel II vol. della sua Antologia della letteratura italiana (Milano-Messina, 9a ed. 1954, p. 182) dove si legge: «Il Michelangelo poeta è, piú che quello dei versi, che molti critici si sono affaticati invano a difendere, quello di queste poche rapide lettere, dove la sua personalità forte, travagliata, cosí triste e cosí lontana dal sentimentalismo, ha lasciato segni tanto profondi». Recentemente ha condotto una breve ricognizione sulle lettere R. Frattarolo (in Dal volgare ai moderni, Roma 1962, pp. 53-57) riprendendo un giudizio, pur positivo, del Papini. La posizione del Momigliano è stata ripresa sostanzialmente da M. Fubini nel suo articolo sulla «Stampa» del 27 febbraio 1964, che è una decisa riconferma delle limitazioni crociane nei riguardi delle liriche.

2 Li si legge ora in edizione critica: I ricordi di Michelangelo, a cura di L. Bardeschi Ciulich e P. Barocchi, Firenze, Sansoni, 1970. Del resto questi stessi documenti non sono certo trascurabili, sia per l’attenzione dell’uomo agli aspetti economici della sua vita, sia per la cura di amministrazione da parte dell’artista-imprenditore nei confronti dei collaboratori e dei commissionari. E insomma essi servono a confermare il ritratto di un uomo che, capace di raggiungere i piú eccezionali esiti artistici, sa ben muoversi con sicurezza sul piano della realtà piú pratica e minuta.

3 Maggio 1518 (Michelangelo Buonarroti, Carteggio, ed. postuma di G. Poggi, a cura di P. Barocchi e R. Ristori, Firenze, vol. II, 1967, p. 10; per le lettere fino al gennaio 1533 mi servo dei primi tre volumi di questa importante e definitiva edizione, usciti rispettivamente nel 1965, 1967 e 1973; per le lettere cronologicamente successive do il testo e le datazioni fornitemi da Renzo Ristori, e insieme, per comodità del lettore che voglia risalire alle lettere intere, rimando all’ed. Milanesi, Firenze, 1875, per la numerazione delle pagine in cui il brano si trova. Cito il testo Ristori come t. R.).

4 Le notizie di avvenimenti si dispongono anch’esse in una dimensione fertile e veloce di scrittura in cui la concisione si commuta in estrema evidenza di immagini. Si pensi, per tutte, alla lettera al fratello Giovan Simone (2 maggio 1507, in Carteggio, I, p. 41) da Bologna in tumulto e fervore guerresco per il tentativo di rientro armato dei Bentivoglio: «Sappi come qua s’afoga nelle coraze, e è·ggià con oggi quatro giorni ch·ella terra è istata tucta in arme e in gran romore e pericolo, e massimo per la parte della Chiesa; e questo è stato per chonto de’ fuoriusciti, cioè de’ Bentivogli, e’ quali ànno facto pruova di rientrare chon gran moltitudine di giente. Ma·ll’animo grande e·lla prudentia della signoria del Legato, col suo gran provedimento che à facto, chredo che a questa ora abbi liberata da·lloro un’altra volta la terra, perché a venti tre ore, stasera, c’è·nnuove del campo loro, che e’ si tornavono adietro con poco loro onore. Non altro».

5 Su cui si veda ora la relazione di Giorgio Spini al Convegno michelangiolesco pubblicata nella «Rivista storica italiana», LXXVI (1964).

6 Der literarische Nachlass Giorgio Vasaris, a cura di K. Frey, vol. I, München 1923, p. 379 (è una lettera a B. Minerbetti del 28 ottobre 1553).

7 2 maggio 1548, Lettere, t. R. (ed. Milanesi cit., p. 225).

8 Carteggio, I, p. 55. Questo tema delle fatiche e della lotta contro le immense difficoltà ritorna spesso nelle lettere come un Leitmotiv eroico; vedi le lettere del 24 luglio e 21 agosto 1512, del 30 luglio 1513 o quelle del 18 aprile 1518 e del settembre 1518 in cui lo sforzo di dover «domestichare e’ monti e ammaestrare gli uomini» si colora della luce radiosa del grande risultato intravisto e voluto come sicuro: «Basta che, quello che io ò promesso, lo farò a ogni modo, e farò la piú bella opera che si sia mai facta in Italia, se Dio me n’aiuta».

9 Ibid., p. 101.

10 Ibid., p. 4.

11 Ibid., p. 92.

12 Forza lucida e serrata del discorso che si svolge a volte fino ad esiti di ritratto da moralista che appoggia pur sempre una verità generale ad una sofferta esperienza personale: come nella bella pagina sul «povero ingrato» (26 gennaio 1524 a Piero Gondi, ibid., III, p. 27): «el povero ingrato à questa natura, che se voi lo sovvenite ne’ sua bisogni, dice che quel tanto che gli date a voi avanzava, se·llo mectete in qualche opera per fargli bene, dice sempre che voi eri forzato, e per non la saper far voi v’avete messo lui; e tucti e’ benifiti[i] che e’ riceve, dice che è per necessità del benifichatore. E quando e’ benifiti[i] ricievuti sono eviddenti, che e’ non si posson negare, l’ingrato aspecta tanto, che quello da chi egli à ricievuto el bene chaschi in qua[l]che errore publicho, che gli sia ochaxione a dirne male che gli sia creduto, per isciorsi dall’obrigo che e’ gli pare avere. Chosí è sempre intervenuto chontra di me; e non si impacciò mai nessuno mecho – io dicho d’artigiani –, che io non gli abi facto bene chon tucto el chuore: poi, sopra qualche mia bizzarria o pazzia che e’ dichon che io ò, che non nuoce se non a·mme, si son fondati a dir male di me e a vituperarmi, che è el premio di tucti gl’uomini da bene».

13 Cosí la stessa serietà con cui viene inteso il tema economico non toglie poi che Michelangelo ne intenda anche i limiti rispetto ad altri beni che piú valgono («gl’uomini vagliono piú che e’ danari», ibid., I, p. 108): «ma per questo non vi sbigoctite, e non ve ne date un’oncia di maninchonia, perché se·ssi perde la roba, non si perde la vita...» (15 settembre 1509, ibid., p. 97). E alla fine ogni ansia per beni materiali è pur sottoposta ad un fondamentale, alto senso di benevolenza divina: «Non vi date passione, perché Dio non ci à creati per abandonarci» (al padre, 5 settembre 1510, ibid., p. 107).

14 Ibid., pp. 95-96.

15 Legge naturale che Michelangelo assimilerà poi addirittura a quella del desiderio di continuità della propria specie, proprio di ogni animale («ogni animale s’ingegnia conservare la suo spetie», al nepote Leonardo, 24 giugno 1552, Lettere, t. R. [ed. Milanesi cit., p. 282]).

16 Carteggio, I, p. 26.

17 Ibid., p. 223: «quando ci fussi pericolo, io lo vorrei vedere a ogni modo inanzi che e’ morissi, se io dovessi morire secho insieme... delle cose necessarie al chorpo, fate che e’ non gli manchi niente: perché io non mi sono afatichato mai se non per lui, per aiutarlo ne’ sua bisogni inanzi che lui muoia».

18 Ibid., II, pp. 274-275.

19 A Buonarroto, 5 settembre 1512, ibid., I, p. 135.

20 A Buonarroto, 1 settembre 1512, ibid., p. 176.

21 A Buonarroto, 18 settembre 1512, ibid., p. 136.

22 Al padre, ottobre-novembre 1512, ibid., pp. 140-141: «Actendete a vivere; e se voi non potete avere degli onori della terra come gli altri cictadini, bastivi avere del pane e vivete ben chon Cristo e poveramente, chome fo io qua, che vivo meschinamente e non curo né della vita né dello onore, cioè del mondo, e vivo chon grandissime fatiche e chon mille sospecti. E già sono stato cosí circha di quindici anni, che mai ebbi un’ora di bene, e·ctucto ò facto per aiutarvi, né mai l’avete chonosciuto né creduto. Iddio ci perdoni a·ctucti. Io sono parato di fare anchora il simile i’ mentre che io vivo, pur che io possa».

23 Ibid., p. 177: «Tu mi scrivi in un modo, che par tu creda che io abi piú cura delle cose del mondo che e’ non si chonviene; e io n’ò piú cura per voi che per me medesimo, chom’io ò sempre facto. Io non vo drieto a favole e non son però pazzo afacto chome voi credete; e credo che voi gusterete meglio le lectere che io v’ò scricte da quatro anni in qua di qui a qualche tempo, che voi non fate adesso, s’i’ non mi inganno; e s’io m’inganno, i’ non mi inganno in cose chactive, perché io so che d’ogni tempo è buono aver cura di sé e delle sua cose. Io mi richordo che tu volevi pigliar certo partito circha dic[i]octo mesi fa, o piú o meno non lo so; io ti scrissi che e’ non era ancora tempo, che tu lasciassi passare un anno per buon rispecto. In questo tempo, pocho dipoi morí el re di Francia; tu mi rispondesti, overo scrivesti dipoi, che el re era morto e che in Italia non era piú pericolo di cosa nessuna, e che io andavo drieto a frati e a favole, e facestiti befe di me. Vedi che ’l re non è però morto; e sare’ molto meglio per noi che voi vi fussi governati a mio modo già parechi anni sono: e basta». Cfr. anche nella lettera a Buonarroto del 22 settembre 1515 (ibid., p. 179): «Vero è che e’ non è da farsi beffe di nessuno, e lo star chon timore in questi tempi e provedersi per l’anima e pel corpo non può nuocere niente... Actendete a stare im pace, e quel che non si può fare, non si facci; se’ tempi sono chactivi, bisognia avere pazienza». Si ricordi, in proposito delle beffe del fratello che lo accusava di andar «drieto a frati e favole», quanto riferí nel suo scritto, Vulnera diligentis, il savonaroliano Benedetto Luschino circa la visione di una stella a tre raggi, annuncio di rovine per l’Italia, Firenze e Roma, che Michelangelo avrebbe visto nel cielo e ritratto a colori in un quadro (cfr. G. Papini, Vita di Michelangelo, Milano 1964, pp. 208 ss.).

24 Settembre-ottobre 1529, Carteggio, III, pp. 280-281.

25 Non credo che si possa risolvere tutta la lettera e la vicenda in una semplice finta di Michelangelo per coprire un’evasione di capitali, come vorrebbe A. Parronchi nella sua comunicazione al congresso, piú volte ricordato, in rapporto a quanto narra il Figiovanni nella cronaca ritrovata dal dottor Gino Corti: «Michelangelo e’ s’era absentato per servar fuggendo da periculo el suo tesoro minacciato dal populo nel bisogno della guerra». Ma Michelangelo con la sua fuga rischiava di essere bandito (e chi gli assicurava in partenza il perdono che poi ebbe?) e con ciò di perdere tutti gli immobili che aveva in Firenze e di mettere a grave rischio i suoi. Sembra molto piú ragionevole pensare che nell’urgere della fuga sollecitata anche dal sospetto e dalle voci di tradimento (su tutta la vicenda dell’assedio in rapporto alla biografia storica e artistica di Michelangelo si vedano le pagine di B. Zevi, Le fortificazioni fiorentine, in Michelangelo architetto, a cura di B. Zevi e P. Portoghesi, Torino 1964) Michelangelo abbia portato con sé il «liquido». Non mi pare comunque che sulla base del racconto del Figiovanni si possa davvero ricostruire un disegno cosí complicato di espatrio, evasione fiscale, rientro preventivamente assicurato.

26 Per certe efficaci espressioni di sarcasmo, con varia gradazione, si ricordino almeno la veloce battuta sul nuovo garzone che gli si offre insistentemente (1514, forse a Niccolò Della Buca, Carteggio, I, p. 150): «e lui non la intese, ma·rrispose che se io lo vedessi, che non che in chasa, io me lo chaccerei nel lecto. Io vi dicho che rinuntio a questa chonsolatione e non la voglio torre a·llui», o il rapido, realistico consiglio al fratello Buonarroto (10 gennaio 1512, ibid., p. 123): «guarda di non essere ingannato, perché e’ non si trova chi voglia meglio a altri che a·ssé. Tu·mmi di’ che questo tale ti vorrebbe dare una sua figl[i]uola per moglie, e io ti dicho che tucte l’oferte che e’ ti fa ti mancheranno, dalla moglie in fuora, quando e’ te l’arà apichata adosso; e quella arai piú che tu non vorrai».

27 Molti gli accenni ad un gusto di solitudine e molto preciso quello al suo consueto stato malinconico o «pazzo» (a Sebastiano del Piombo, maggio 1525, ibid., III, p. 156): «usci’ um pocho del mio malinchonicho, o vero del mio pazzo».

28 Si pensi alla lettera al nepote Leonardo circa la sua vicinanza ai fuorusciti fiorentini (che costituiva di fatto uno dei cerchi piú stretti della sua socievolezza) smentita assurdamente, soprattutto in relazione al danno che poteva derivare alla famiglia e alla fortuna economica costruita in Firenze (22 ottobre 1547, Lettere, t. R., ed. Milanesi cit., p. 221) in seguito al bando del duca Cosimo contro i ribelli, i cospiratori e i loro discendenti.

29 I versi sulla Notte da non prendersi alla leggera («mentre che ’l danno e la vergogna dura»), la fattura del busto di Bruto e il madrigale 249 (ed. delle Rime, a cura di E.N. Girardi cit.) a dialogo tra i fuorusciti fiorentini e Firenze (i «desir santi» dei fuorusciti e la loro «miseria di speranza piena», contrapposti al tiranno che «sol s’appropia quel ch’è dato a tanti» e che «col gran timor non gode il gran peccato» e in cui «’l gran desir gran copia affrena»), l’offerta al re di Francia di fargli in piazza della Signoria una statua equestre, a proprie spese, se quegli avesse riportato la libertà in Firenze (secondo la lettera del Del Riccio del 21 luglio 1544 da Lione in E. Steinmann, Michelangelo e Luigi Del Riccio, Firenze 1932, p. 39), le vibranti affermazioni antitiranniche riportate nei Dialoghi del Giannotti e, in quelli, l’accenno al fatto che l’argomento dei tempi «malvagi» era per Michelangelo argomento favorito (D. Giannotti, Dialoghi, Firenze, ed. De Campos, 1939, p. 40), son tutti vivi spiragli su di una disposizione che, se non esclude certa tortuosità complicata (lo strano ragionamento, a due piani, nei Dialoghi, circa il merito di Bruto e la condanna che ne fa Dante nell’Inferno), è una dichiarazione esplicita di scarso interesse per la precisa politica degli «stati» (5 novembre 1547, a Leonardo, Lettere, t. R., ed. Milanesi cit., p. 210) e conduce pur Michelangelo a risentire con sofferenza drammatica la condizione dei tempi: donde la severa scontentezza di fronte alle feste fatte dal nepote Leonardo per la nascita di un figlio «perché l’uomo non de’ ridere, quande ’l mondo tucto piange» (aprile 1554, al Vasari, Lettere, t. R., ed. Milanesi cit., p. 593): e il 1554 era pur l’anno dell’assedio spagnolo di Siena alleata della Francia e dei fuorusciti fiorentini capeggiati dallo Strozzi.

30 «I danari non si truovon per le strade» (29 aprile 1547, Lettere, t. R., ed. Milanesi cit., p. 191); «E se tenete danari in casa, l’una mana non si fidi de l’altra, perché è grandissimo pericolo» (11 febbraio 1547, ibid., p. 200).

31 Vedi la lettera al Cavalieri, degli ultimi giorni del 1532, con il suo tono volto al nobile, al sublime per adeguare la dignità dell’oggetto, con una tensione inarcata e quasi ampollosa, con metafore alte e uso di clausole solenni: «e se io non arò l’arte del navicare per l’onde del mare del vostro valoroso ingegnio, quello mi scuserà, né si sdegnierà del mio disaguagliarsigli, né desiderrà da·mme quello che in me non è: perché chi è solo in ogni cosa, in cosa alcuna non può aver compagni» (Carteggio, III, p. 443). La lettera ha altre due redazioni scritte in forma piú concisa e sobria, ma sempre con singolare tensione concettosa e spirituale (Lettere, ed. Milanesi, pp. 463-464), quasi sul modulo di certi sonetti o madrigali della stessa epoca. E si veda, come in un arco piú sfocato di tensione e con un uso piú sobrio e funzionale delle antitesi, la lettera al re di Francia (26 aprile 1546, Lettere, t. R., ed. Milanesi cit., p. 519), che culmina coerentemente in un’espressione concettosa, ma come essenziale e capace di far passare direttamente nella pagina il sentimento malinconico e religioso dell’artista, con una certa somiglianza con il procedimento delle rime piú tarde: «E se la morte interrompe questo mio desiderio, e che si possa sculpire o dipigniere nell’altra vita, non mancherò di là, dove piú non s’invechia».

32 A Luca Martini, fine di marzo o primi di aprile 1547 (Lettere, t. R., ed. Milanesi cit., p. 524).

33 «Io sono un povero huomo et di poco valore, che mi vo afaticando in quell’arte che Dio m’à data, per alungare la vita mia il piú ch’io posso» (a Niccolò Martelli, 20 gennaio 1542, ibid., p. 473).

34 «Perché veramente e’ non si trova pace se non ne’ boschi» (18 dicembre 1556, al Vasari, ibid., p. 541).

35 «... perché portar danari a’ preti, Dio sa quel che ne fanno» (7 aprile 1548, a Leonardo, ibid., p. 222).

36 «Della morte (di Giovansimone), mi scrivi, che, se bene non à avuto tucte le cose ordinate dalla Chiesa, che pure à avuto buona contritione: e questa per la salute basta, se cosí è» (4 febbraio 1548, a Leonardo, ibid., p. 219).

37 «Ma piú credo agli orationi che alle medicine» (25 aprile 1549, a Leonardo, ibid., p. 248).

38 Vedi le lettere a Leonardo, 15 marzo 1549, 23 marzo 1549, 28 febbraio 1551 (in cui, in altra direzione, è da notare che l’elemosina è destinata da Michelangelo ad aiutare qualche famiglia fiorentina nobile e decaduta, come era stata la sua, agli inizi del suo lavoro).

39 Vedi la lettera sul progetto di San Pietro (a Bartolommeo Ferratino, fine 1546 o primi del 1547, ibid., p. 535) in cui, criticando il progetto del Sangallo, nota che il nuovo progetto «toglie tucti i lumi alla pianta di Bramante» e insieme è fatto di «tanti nascondigli fra di sopra e di socto, scuri, che fanno comodità grande a ’nfinite ribalderie, come tener segretamente sbanditi, far monete false, impregniar monache e altre ribalderie...».

40 E per l’impegno dell’artista cristiano nel costruire San Pietro si veda la lettera dell’11 maggio 1555 al Vasari (ibid., p. 537) in cui, parlando di un suo possibile ritorno a Firenze, afferma che vuol però partire da Roma «con buona fama e onore e senza pechato».

41 23 febbraio 1556 (Lettere, ibid., p. 539).

42 Si veda il rapporto fra i componimenti frammentari 283-284 e le lettere citate al re di Francia e a Luca Martini.